Debian, software libero e consumo critico

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Qualche settimana fa sono stato intervistato telefonicamente per la Repubblica da Giulia Belardelli, a proposito di Debian, software libero, e temi affini.

Dalla lunga telefonata, di un'ora circa, Giulia ha estratto un'intervista scritta che è stata pubblicata online qualche giorno fa su laRepubblica.it con il titolo L'avanzata del free software: «Non rinunciate al controllo». Riporto qua sotto l'intervista scritta nella sua interezza, a futura memoria e più libera licenza.

(L'incipit e le domande in grassetto sono di Giulia; il resto sono estratti da mie risposte.)


Parla Stefano Zacchiroli, direttore del noto progetto Debian per un sistema operativo libero. L'appello ai più giovani: "Siate vigili su ciò che organizza la vostra vita". La ricetta per il cambiamento: alfabetizzazione informatica e spirito critico

Quando ha iniziato a "smanettare" con l'open source, Stefano Zacchiroli era poco più di un ragazzino. A quei tempi, studente di Informatica all'Università di Bologna, non avrebbe mai immaginato che nell'arco di una decina d'anni sarebbe diventato il leader di Debian, uno dei più importanti progetti per la distribuzione del software libero. Un'istituzione, per chi conosce almeno i fondamentali dell'universo open source. Oggi Zacchiroli vive a Parigi, dove oltre a dirigere la vivacissima comunità di programmatori insegna Informatica all'Università Paris Diderot. Repubblica.it lo ha raggiunto per farsi raccontare il presente del software libero e provare a immaginarne il futuro. Un futuro in cui - avverte Zacchiroli - gli utenti dovranno sviluppare un maggiore senso critico, se non vogliono correre il rischio di rinunciare ogni giorno a un po' della loro libertà.

Partiamo proprio da qui. In che senso un software può incidere sul nostro grado di libertà?

"Un software è libero quando l'utente ne ha il controllo totale. Che questo software giri su computer, tablet, telefono o televisione, poco importa. Libertà vuol dire poter usare il software senza limitazioni di scopi, poterlo copiare e soprattutto poter guardare come è stato fatto, ossia vederne il codice sorgente, e modificarlo. Ciascun programmatore sa decifrare il codice sorgente, mentre se ha solo il codice binario non può fare granché. Avere a disposizione il codice sorgente significa poter modificare il software e ridare al mondo, come un atto di collaborazione, le nuove modifiche".

Proviamo a fare qualche esempio attinente alla vita quotidiana...

"Un esempio emblematico è quello del tostapane. Cinquant'anni fa uno "smanettone" era in grado di aggiustare un tostapane rotto adattandolo a un diverso impianto elettrico. Oggi, se prendiamo un tostapane su cui gira del software proprietario, non abbiamo più quella libertà. I software ci consentono di realizzare tantissime cose che prima erano impossibili. Trattandosi però di un concetto difficile, alla gente sfugge che di un software proprietario il consumatore non può fare nulla: è come avere un oggetto, ma possederne in realtà solo una piccola parte. Dal momento in cui la presenza del software negli oggetti quotidiani è destinata ad aumentare, non vedo perché i consumatori debbano rinunciare ad avere il controllo dei loro oggetti, e dunque alla loro libertà. L'obiettivo, al contrario, dovrebbe essere quello di estendere il controllo individuale a tutti i dispositivi che utilizziamo e che contengono del software. Ce ne sono un'infinità: dai computer ai telefonini, dalle macchine agli aerei, per arrivare ai pace-maker che abbiamo addosso e ai dispositivi ospedalieri che controllano la nostra vita".

Quali passaggi segnano la nascita e la diffusione di un programma open source?

"Il software libero è un modo di rilasciare un software: il programmatore che scrive un software può decidere se rilasciarlo sotto una licenza "libera". Poi ci sono le distribuzioni: dei progetti che prendono tanti pezzetti di software sviluppati da gente molto diversa, li mettono insieme e li rendono utilizzabili dagli utenti finali. Il che vuol dire facilitare l'istallazione di un sistema operativo, agevolare la ricerca di nuovo software, rendere più immediato il passaggio alle nuove versioni".

Dal 2010 è leader del progetto Debian, una delle prime iniziative di sviluppo e distribuzione del software libero.

"Debian è nata nel '93 ed è stata una delle prime distribuzioni del mondo. In particolare, è stata la prima ad aver sposato il concetto di "comunità", ossia a capire che una distribuzione software libero raggiunge il suo pieno potenziale non se è opera di due-tre persone, ma di una comunità. La nostra è composta interamente da volontari: oggi il progetto conta oltre 1.000 membri e 3-4.000 persone che contribuiscono da ogni parte del mondo. Insieme, si collabora per costruire un sistema operativo completamente libero che chiamiamo "distribuzione Debian". In buona parte vengono dalle università: sono studenti, professori, ricercatori. Alcuni sono amministratori di sistema, geek, hacker e appassionati di tecnologia in generale. Ma ci sono anche degli umanisti. Debian può essere visto come un esempio - funzionante - di società politica. Tutto si svolge secondo i criteri della democrazia; c'è un processo di "mentoring" e verifica per entrare. La qualifica di membro corrisponde a quella di cittadino: ogni membro è come se diventasse cittadino di questa società chiamata Debian, che si basa su una vera e propria costituzione. Il contratto sociale regola anche i meccanismi di voto: il leader è votato su base annua dai cittadini. Ci sono procedure di candidatura, dibattito più o meno politico, e infine di voto. Si tratta di una particolarità di Debian, visto che di solito le distribuzioni sono frutto di un mix di aziende e comunità".

Quanti progetti di distribuzione ci sono in giro oggi? Quali sono i più promettenti?

"Al momento il più famoso è sicuramente Ubuntu, che in realtà è basato su Debian per il 90%. Hanno preso la nostra distribuzione e ci hanno costruito sopra un nuovo sistema (è il bello del software libero!), scegliendo come target di riferimento l'utente desktop casalingo. Altri sono SuSE, Red Hat, Fedora, ma ce ne sono centinaia e centinaia, ognuno con il suo pubblico di riferimento e le sue specificità".

A una persona non esperta può risultare difficile capire perché il free software sia ovunque, anche in sistemi/programmi tutt'altro che gratuiti. Ci spiega perché?

"Chi crede nella filosofia del software libero, accetta che il software sia un bene comune: si lavora su un prodotto che, una volta pronto, è per tutti. Non si mettono restrizioni su chi può o meno usare un determinato software. A questo punto, ecco che tra gli utilizzi possibili rientra anche il "fare soldi". Per questo il software libero è presente in tantissimi oggetti commerciali. Ci sono dei vincoli, come ad esempio l'impegno a condividere con gli altri eventuali modifiche, ma non c'è nulla di illegale. Di conseguenza, enormi sono gli interessi commerciali delle aziende che si basano sul nostro lavoro. Gli sponsor delle nostre conferenze sono Google, IBM, HP; l'azienda che sta dietro Ubuntu ha 500 dipendenti ed è una multinazionale. Il bello è che in buona parte queste grandi aziende si affidano al lavoro fatto da noi: mille prodi volontari".

Dall'elenco mancava Apple, la nemica giurata dei sostenitori del free software.

"Dal mio punto di vista, il successo di Apple sta nell'aver trasformato i computer da strumenti su cui si producevano contenuti a macchine per consumare contenuti. A ciò bisogna aggiungere un'attenzione maniacale ai dettagli, che li ha portati a meritarsi il primato. Secondo me, però, stanno facendo un sacco di danni ai consumatori. Punto primo: non sappiamo cosa fanno i loro dispositivi. Ad esempio, è stato scoperto che gli iPhone tracciavano gli spostamenti degli utenti, un fatto a mio avviso molto inquietante. Il secondo aspetto è legato ai DRM (Digital Right Management): ogni volta che compriamo delle canzoni su iTunes, non sappiamo se ce le avremo per sempre e non possiamo prestarle ai nostri amici. Quando compriamo un cd, invece, sappiamo che sarà nostro per sempre. Hanno trasformato il concetto di app store (che trae le sue origini dalle distribuzioni di una quindicina d'anni fa) in un dispositivo di censura: il software disponibile su un iPhone non lo decide l'utente, bensì deve aver passato il vaglio della Apple. Nel mondo Android, per lo meno, ci sono anche gli store non ufficiali".

Oltre alla libertà, quali sono gli altri vantaggi del software libero rispetto a quello proprietario? Cosa intende chi parla di "superiorità" del free software?

"Da tempo si sa che il software libero non ha nulla di inferiore a quello proprietario, anzi. È bene non generalizzare perché ci sono software proprietari fatti benissimo e altri malissimo. Da anni sappiamo che, in termini di sicurezza, il software libero offre vantaggi inimmaginabili. Tutto è visibile, quindi anche se potenzialmente i "cattivi" (i cracker) possono trovare più facilmente delle falle, c'è anche molta più gente che può controllare e risolvere. Più in generale, un'azienda che fa business su software non libero ha interesse a nascondere i problemi di sicurezza perché sono cattiva pubblicità. Nel software libero, invece, tutto è già visibile e non c'è nessun interesse a nascondere".

Perché, malgrado tutti questi vantaggi, i sistemi operativi liberi faticano a prendere piede tra la maggior parte degli utenti?

"Oggi non c'è nessun motivo oggettivo per cui un sistema operativo basato su Linux debba essere meno popolare di uno basato su Windows o Mac. Ci può essere ancora qualche problema di supporto hardware (ad esempio una scheda appena uscita, ma sono questioni che si risolvono molto in fretta). Ciò che più preoccupa, di solito, è il costo del cambiamento. La nostra è la prima generazione cresciuta con il computer. Purtroppo in molti abbiamo imparato a usare il PC in modo assolutamente visuale, cioè abituandoci al fatto che per ottenere un risultato bisogna cliccare su un'icona con un certo disegnino. Se il disegnino sparisce, panico, non sappiamo più che fare. È un problema innanzitutto di educazione. Diversi studi di usabilità hanno mostrato che, prendendo dei neofiti nell'uso del computer, esistono in realtà moltissime interfacce lato Linux che sono più intuitive. A casa mia ho fatto usare a nonni e genitori Debian senza alcun tipo di problema".

Come si fa a "educare" gli utenti?

"Bisogna cambiare il modo in cui insegniamo l'informatica a tutti i livelli, sia per gli addetti ai lavori che non, e stimolare lo spirito critico. Un elemento che potrebbe rivelarsi utile è il dibattito sulla privacy che sempre più spesso arriva sui giornali. La gente sta iniziando a capire che se Facebook o Twitter ti danno un account "gratis", in realtà anche tu stai dando loro qualcosa. Allo stesso modo, si sta diffondendo l'idea che non sei davvero libero, se non hai il controllo dei tuoi dati. Sono passi nella direzione giusta, perché ci stimolano a porci domande su chi controlla veramente il software che usiamo".

Trova che ci sia un ritardo particolare nel nostro paese?

"Rispetto a paesi come la Francia e la Germania, il nostro mercato è indietro. Se il software libero fosse più diffuso, potrebbero nascere tante piccole società in grado di modificare e ottimizzare autonomamente determinati software. Uno scenario del genere comporterebbe la creazione di nuovi posti di lavoro nel mondo IT, senza barriere artificiali imposte dall'impossibilità di accesso al codice sorgente. In Italia esistono aziende che offrono questi servizi, ma si tratta ancora di un numero molto esiguo. In ballo c'è però anche una questione politica: a puntare sull'open source dovrebbero essere in primo luogo il governo e le amministrazioni pubbliche, perché non c'è nulla di peggio che spendere soldi pubblici nello sviluppo e nel mantenimento di software non libero. Come si fa a cambiare? Puntando sulla competenza di persone qualificate, che al di là di tutto in Italia non mancano"


Update 27/04/2012: publish an English translation, kindly contributed by Matteo Cortese